Sabato, 06 Luglio 2013 14:05

Lavorare (e morire) in Bangladesh

Scritto da  Gerardo

Da Luigi De Paoli riceviamo la toccante testimonianza di una donna sopravvissuta al crollo (annunciato) dela fabbrica in Bangladesh.
Rischiare di morire per 53 euro al mese.





NON ABBIAMO SCELTA
di Mushamat Sokina Begum

Non ho davvero voglia di ricominciare a lavorare. La maggior parte delle persone qui si sente allo stesso modo. Abbiamo paura. Ho saputo di un’altra fabbrica con le crepe alle pareti. E so di un altro edificio poco sicuro che si dice appartenga anch’esso a Mohammed Sohel Rana (il proprietario dell’edificio Plaza Rana). La scorsa settimana c’è stato un altro incendio in una fabbrica e sono morte delle persone. Cose di questo genere avvengono costantemente. Credo che Dio voglia punirci per qualcosa. Non so cosa.
Le nostre condizioni di lavoro sono orribili. Non abbiamo neanche un giorno di riposo. Se c’è un lutto in famiglia, i padroni dicono: «Beh, se uno è morto, è morto. Perché vuoi andarci? Tanto non c’è niente che tu possa fare. Se vuoi avere un giorno di riposo, prenditelo. Ma non guadagnerai nulla». Riceviamo denaro solo se stiamo in fabbrica. Non ci sono ferie pagate. A volte lavoriamo fino a 23 ore, sempre sotto pressione, sempre a sentire che dobbiamo lavorare più rapidamente per fare le consegne in tempo. Lavoravamo fino a molto tardi prima che il palazzo crollasse, malgrado molte di noi abbiano figli.
Quando diciamo ai nostri superiori che vogliamo andare a casa perché i figli ci aspettano, ci dicono: «perché stai venendo a lavorare se hai figli? Resta a casa e prenditi cura di loro! Se vuoi aver figli, non puoi lavorare per noi!». Abbiamo sentito commenti di questo tipo tutto il tempo. Anche il caldo è insopportabile. Nella sala in cui lavoravo c’erano appena quattro piccoli condizionatori per varie centinaia di persone. Chiedevamo quando avrebbero comprato almeno dei ventilatori. Rispondevano: «La produzione non sta andando bene. Se avremo profitti, allora potremo comprare i ventilatori. Lavorate di più e potremo parlarne». (…).
Le condizioni di lavoro nel nostro settore sono pessime. La nostra fabbrica non era molto pulita. C’era un deposito di rifiuti dietro il palazzo che mandava cattivo odore. C’erano sempre funzionari a controllarci. Ci rimproveravano quando dovevamo andare al bagno. Restavano lì tutto il tempo e non permettevano che facessimo alcuna pausa, neppure per andare alla finestra a prendere una boccata di aria fresca. A volte ci picchiavano. Sopportavamo tutto.
Non voglio lamentarmi: guadagnavamo abbastanza per sopravvivere. I proprietari della fabbrica sono ricchi e investono molti soldi nei macchinari. Noi siamo solo lavoratori poveri. Viviamo come possiamo. Non abbiamo scelta. Perché dovrei invidiare i ricchi? Non mi aspetto di diventare ricca, un giorno. Ma dovremmo almeno ricevere la nostra paga. Purtroppo, molti proprietari pagano in ritardo. Allora di tanto in tanto entriamo in sciopero, a volte per varie settimane. Perché dovremmo lavorare se non riceviamo denaro? Dobbiamo pagare l’affitto entro il 10 di ogni mese. È difficile farlo quando non riceviamo il nostro salario.
Non abbiamo ricevuto niente ad aprile e ora che la fabbrica non esiste più nessuno sa se un giorno riceveremo del denaro. Finora non ho visto alcun rappresentante dell’impresa che ci abbia pagato o offerto qualche indennizzo. Come tutte le donne della fabbrica, lavoravo dalle 8 alle 17. Guadagnavo 4mila taka (circa 39 euro) al mese. Dopo le 17, ci venivano pagate le ore extra. In tutto, il mio salario mensile poteva arrivare a 5.500 taka (53 euro).
Non provo rabbia nei confronti delle imprese straniere: fanno le loro ordinazioni e pagano, e parte di questo denaro va a noi. Sarebbe terribile se le ordinazioni finissero e le fabbriche chiudessero. Come potremmo guadagnarci da vivere? Abbiamo famiglie numerose e vogliamo mandare i figli a scuola. Abbiamo bisogno di lavoro. La vita in una città grande come Dacca è incredibilmente cara. L’affitto è molto alto. Siamo quattro in una stanza: io, mio marito e due figli, di 11 e 9 anni. Paghiamo 1.850 taka (18 euro) al mese per la camera. I miei figli dormono per terra, io e mio marito abbiamo un letto. C’è una cucina condivisa con due fornelli sul nostro piano. Ci sono due lavabi in corridoio e un bagno per tutti. Nel nostro piano, vi sono in tutto sette famiglie che vivono in otto stanze. I proprietari vivono in due stanze e le altre sei sono affittate. Abbiamo acqua corrente, gas ed elettricità. Mi piace la nostra stanza.
Non sarebbe affatto male avere una camera per i nostri figli, è chiaro, ma chi può permetterselo? I miei figli vanno a scuola e questo ci costa 500 taka (4,80 euro) al mese per bambino, oltre al materiale scolastico. L’educazione è più importante di una seconda camera. Mio marito guida un risciò, trasporta merci. Non guadagna molto. Noi donne abbiamo poche alternative oltre all’industria tessile. È chiaro che gli incidenti ci spaventano.
Conosco molte persone che dicono: preferiamo tornare a vivere nel villaggio e non guadagnare nulla piuttosto che rimanere uccisi nelle fabbriche della città. Nella mia fabbrica, che era al quinto piano, c’erano solo tre uscite. Due erano sempre chiuse. Le altre fabbriche in cui ho lavorato non erano molto meglio. Spesso protestavamo e chiedevamo: e se scoppiasse un incendio? Ma a loro non importava. I cambiamenti che chiedevamo erano piccoli: più spazio nelle sale, più ventilatori, più uscite e più scale. E volevamo essere trattate con giustizia. Personalmente, non ho aspettative per il futuro. Che devono aspettarsi i lavoratori? Tutto dipende dai capricci dei proprietari. Per esempio, bastava che piovesse un po’ perché il fango e l’acqua arrivassero a mezzo metro di altezza. Quante volte abbiamo detto agli amministratori che dovevano fare qualcosa? Lavoravamo bagnate e ci ammalavamo. Ci promettevano che se ne sarebbero occupati, ma naturalmente non è cambiato nulla.
Sarebbe bello avere la propria macchina da cucire. Sarebbe un modo di provvedere al mio sostentamento. Potrei accettare ordinazioni e lavorare a casa, conosco donne che lo fanno. Ma non ho soldi per comprare una macchina da cucire. Il salario di mio marito non basta in nessun modo. Mi piacerebbe guadagnare abbastanza per pagare l’educazione dei miei figli. Voglio offrire loro il miglior futuro possibile. Non dovrebbero lavorare nell’industria tessile né guidare un risciò come mio marito.
Devo trovare un lavoro, quindi, perché altrimenti i miei figli saranno costretti a lavorare e non potranno andare a scuola, il che significa che non troveranno mai buoni impieghi. È la mia maggiore preoccupazione. Voglio che i miei figli abbiano meno preoccupazioni di me e di mio marito. Non abbiamo istruzione. Io ho frequentato la scuola solo per poco tempo. Molto poco. Voglio salvare i miei figli da questo destino. La cosa migliore sarebbe che potessero trovare lavoro nel governo.
La persona che incolpo maggiormente per questa calamità è il proprietario del palazzo, Sohel Rana. Non aveva il permesso di costruire un edificio così alto. Anche lui era nel palazzo il giorno in cui è crollato. È sopravvissuto miracolosamente, ma, invece di aiutare a mettere in salvo altri, è semplicemente scomparso. Mi piacerebbe chiedergli: perché sei andato via? Persone del quartiere senza alcun legame con l’edificio sono venute ad aiutarci.
Il giorno del disastro non era iniziato bene per me. Mio padre era stato male la notte, così male che avevamo dovuto portarlo all’ospedale. Io anche ero malata. Ma non avevo altra scelta che andare a lavorare, perché avevano minacciato di non pagarmi se non fossi andata. Quella mattina, prima che il palazzo crollasse, molte persone erano in attesa fuori. Nessuno aveva il coraggio di entrare. Avevano tutti come un presentimento.
Alle 8 e dieci gli amministratori ci ordinarono di iniziare a lavorare. Dicevano che non dovevamo preoccuparci, che era tutto sicuro. «Anche noi siamo qui», ci dicevano: c’era una gran quantità di ordini da evadere ed eravamo sotto pressione. Ero davanti alla macchina da cucire quando la parete crollò dietro di me. Corsi in direzione dell’uscita, ma il pavimento cedeva sotto i miei piedi. All’improvviso, ero sepolta nel calcestruzzo fino alla cinta. Ma se non fossimo entrati nella fabbrica, avremmo perso il lavoro. E allora obbedimmo.

(Da ADISTA n. 22)


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